Ricomincio a scrivere dopo tanto, troppo tempo, su questo blog raccontandovi di una bella serata trascorsa ieri.
Nell’ambito della manifestazione riminese Moby Cult – Incontro con l’autore, ho assistito, in compagnia di digitaladoptive, alla presentazione del libro “Network effect. Quando la rete diventa pop“, curato da Lella Mazzoli. Tra i contributi, quelli di Giovanni Boccia Artieri e di Laura Gemini, persone che ho avuto modo di conoscere durante le mie esperienze in Rete (e poi, fortunatamente, anche di persona). Il testo, a mio parere, è abbastanza complesso, non fosse altro per il fatto che la mia formazione non è di tipo sociologico. Ma è stato molto interessante apprezzare gli interventi degli autori che hanno tentato di diffondere le tematiche espresse nel libro a un audience eterogenea.
Vorrei condividere con voi le mie personali riflessioni scaturite dalla serata, riflessioni che mi hanno lasciato con una inquietudine di fondo.
E’ certamente un fatto la frequentazione dei SN da parte di strati sempre più vasti della popolazione, tanto vasti da considerare la Rete “pop” , secondo il titolo del volume. Tuttavia, a mio avviso, ci sono ancora difficoltà, o quantomeno punti non risolti. Lo stesso termine “pop”, per come è stato associato alla musica, rimanda a melodie semplici, adatte a tutti, indifferenziate, che più che creare si basano su modifiche di temi esistenti (mi sono permesso di rielaborare il lemma su Wikipedia).
Come tutte le “rivoluzioni” c’è certamente un ottimisimo di fondo, anche da parte degli studiosi di ieri sera. Le mie esperienze in Rete nascono nel 1994, ricordo bene quell’entusiasmo degli anni Novanta schiantarsi il 10 Marzo 2000, con il manifestarsi dell’Internet Bubble. Ed ecco perchè preferisco essere più cauto evidenziando le questioni ancora aperte:
1) L’effetto traino dei media tradizionali ha consentito l’accesso ai SN da parte di tantissimi utenti. Quanti di loro sfruttano davvero questi strumenti rivoluzionari? Spesso le relazioni sono superficiali, mantengono semplicemente un contatto con chi è lontano o semplicemente completa una relazione vicina con conversazioni di scarso spessore.
2) La produzione di contenuti, paradigma fondante del web 2.0, è molto limitata. Più che creare qualcosa di nuovo, ci si mette sotto una bandiera. Più facile “far parte di” che non “contribuire a“. “Diventare fan” (parlo di FB) spesso si concretizza in una semplice etichetta.
3) La scarsa partecipazione porta spesso e volentieri alla noia. I SN hanno parecchi utenti ma poi quelli effettivi sono pochi (si parla di un terzo di quel terzo di italiani che usano Internet). E quei SN dove “l’investimento partecipativo” è alto, come ad esempio Second Life, addirittura desertificano. Neanche i blog godono di ottima salute (il mio per primo): le riflessioni costano fatica, scrivere è faticoso, ed è molto più semplice cedere alle comunicazioni superficiali sui SN).
4) Il GROSSO problema della privacy. Pur essendo d’accordo sul fatto che per le nuove generazioni il confine tra pubblico e privato è più labile, permangono problemi di consapevolezza. Le campagne come “Think before you post” o l’opuscolo “Social network: attenzione agli effetti collaterali” pubblicato dal nostro Garante per la protezione dei dati personali.
5) Privacy a parte, è ancora forte il problema complessivo del digital divide, nell’accezione squisitamente culturale e non infrastrutturale (aspetto cui comunque il nostro Paese è parecchio indietro). Chi educa all’utilizzo corretto della Rete? E’ sufficiente la pratica o, come penso io, ci vogliono strumenti culturali che gran parte della popolazione (giovani generazioni comprese) non ha? E, anticipando il punto 6, la politica ha interesse in questa educazione all’uso?
6) Il problema della politica. Da un lato ci sono forze (i frequentatori dei SN), che mettono sullo stesso piano il loro “io” pubblico e privato, che spingono alla partecipazione e alla trasparenza aziende e amministrazioni pubbliche; Dall’altro lato, “curiosamente”, accade che in Europa, al forte sviluppo dei SN, si contrappone una produzione normativa volta ad imbrigliare l’utilizzo della Rete (la nota vicenda D’Alia, le limitazioni francesi alla net neutrality, i tentativi di equiparazione tra blog e carta stampata, solo per fare alcuni esempi). Propaganda e non partecipazione, questo è ciò che conta per chi governa (concetto ben espresso da H. Lasswell e dalla scuola di Chicago, oltre che ovviamente da quello che riesco a comprendere del concetto di “Cultura di massa”, di “Tolleranza repressiva” e di “Concessione di libertà apparenti” di Marcuse).
Considerando tutti questi elementi, sembra che l’instaurarsi di relazioni con un minimo di creatività passi allora per le élites, gruppi ristretti di popolazione cui non interessa la massa critica. Lo stesso intervento di Laura Gemini, sull’utilizzo della Rete come stimolo alla creatività, è passato per la citazione delle avanguardie, che, mi pare, altro non siano se non élites.
Anche l’intervento di Luca Rossi mi porta alla stessa conclusione. Il videogioco è una grande metafora della società, dove chi ha la passione, la scintilla creativa, gioca, crea relazioni, tenta le via del cambiamento, e che si ritira non appena la qualità di quella relazione decade.
Riprendo una frase di Giovanni Boccia Artieri
Cosa accade nel momento in cui milioni di persone nel mondo non sono più semplicemente pubblico di massa […] ma possono produrre connessioni “di massa” tra loro, con e attraverso contenuti che imparano non solo a fruire ma a produrre?
A mio modo di vedere le mutazioni di cui parla Giovanni sono ancora infinitesimali, e quello che è peggio e che ci sono spinte contrarie.
La mia riflessione finale: Internet è un fenomeno eversivo (intendiamoci, inteso come sovversione “culturale” dell’ordine costituito). L’élite che comanda la società facendo leva innanzitutto sul suo potere economico la osteggia, un’altra elite (gli “eversivi” di cui sopra) che fanno fatica a fare breccia sugli altri che, in ogni caso, utilizzano i SN con un modello che si rifà in gran parte ai media tradizionali.
Non posso far altro che concludere ringraziando gli autori per aver suscitato in me tali riflessioni, giuste o sbagliate che siano (ribadisco, non sono in grado di sostenere un approccio sociologico al problema). Ma almeno è un punto di partenza per un dibattito di cui, se vorrete, sarò felice di attenderne gli sviluppi. Nel frattempo, se volete acquistare il libro, sappiate che non ho concordato nessuna percentuale 🙂